Celestino V tra storia e mito

15 Gennaio 2022 by - Conoscere, Storia

Celestino V tra storia e mito

Numerosi cenobi si formarono dunque nelle montagne abruzzesi, specialmente nella Maiella, durante le lotte acerbe che desolarono il paese e lo gettarono in preda alle discordie e al banditismo. Pur evitando l’aperta eresia, quel rigoglio di vita ascetica rimase al di fuori della vita ufficiale della chiesa e accolse in sé, adattandole al proprio genio, le ispirazioni affini delle correnti benedettine, gioachimite e francescane. Così, tra l’altro, si costituirono sulla contrada della Maiella i celestini, anacoreti seguaci della regola benedettina più stretta, riuniti in congregazione nel 1264 per iniziativa di Pietro da Morrone, più tardi papa Celestino V, allo scopo di restaurare l’ideale e il costume del primitivo monachesimo cristiano, assai decaduto nel XIII secolo. E allo stesso fine, e per impulso dello stesso fondatore, sorsero i «poveri eremiti di Celestino», minoriti rigidi, più tardi soppressi, tra i quali furono accolti alcuni francescani della corrente degli spirituali che aspettavano l’avverarsi di alcune previsioni del calabrese abate Gioacchino di spirito profetico dotato, e tra l’altro l’incoronazione di un «papa angelico». Quest’ultima profezia sembrò realizzarsi nel 1292 quando Pietro da Morrone fu eletto Papa; ma fu breve speranza, perché, dopo cinque mesi di penosa esperienza, durante i quali si cercò di compromettere il nuovo papa nelle meschine e acerbe lotte tra gli Orsini, i Colonna e i Caetani che si agitavano nella stessa Curia, egli pronunziò solenne rinunzia al papato, compiendo un gesto senza esempio nella storia della Chiesa. Quell’atto gli valse di essere relegato da Dante, amareggiato in alcune sue illusioni politiche, tra gli «ignavi», nel vestibolo dell’ Inferno (perché «fece per viltade il gran rifiuto»); ma la decisione del monaco posto a scegliere tra due forme di vita che gli apparivano inconciliabili, il papato e la santità, può essere ora giudicata in un senso ben diverso, come atto di cristiana sincerità. E in quel senso San Celestino V è certamente da ammirare come il più abruzzese dei Santi: non si può capire un certo aspetto dell’Abruzzo senza capire lui.

Così scriveva nel 1948 nella presentazione dell’Abruzzo per il Touring Club Ignazio Silone, autore poi, nel ’68, di L’avventura di un povero cristiano, un dramma dedicato alla emblematica figura dell’eremita fra Pietro Angelerio del Morrone.

Anche se i racconti su Celestino V ci giungono inquinati per via di differenti visioni ecclesiali e politiche e soprattutto dalla annosa contrapposizione tra la sua figura e quello del suo successore (e carceriere) Bonifacio VIII Caetani, tuttavia sappiamo che sulla sua vicenda si è scritto molto, sia all’interno della Chiesa che in campo storico-letterario, a partire da contemporanei. Non solo Dante e il meno citato Petrarca, ma tanti studiosi hanno detto la loro in questi sette secoli e nella seconda metà del ‘900 gli studi hanno avuto nuovi impulsi sia per le riflessioni di tre Pontefici, sia per l’attivismo del Centro Internazionale Studi Celestiniani che dal 1982 incentiva annualmente la ricerca intorno a questa figura. Il dibattito sul diritto del papa a rinunciare si è riaperto prepotentemente nel 2012 con la rinuncia di Benedetto XVI, che già nel 2009, visitando L’Aquila dopo il terremoto, aveva deposto con un gesto di umiltà e d’intenso raccoglimento il suo Pallio di pontefice sulla tomba di Celestino V, gesto considerato profetico. [Sul parallelismo tra la rinuncia di Celestino V e quella di Benedetto XVI cfr La rinuncia di Celestino V di Alfonso Marini]

Bisogna distinguere – a mio parere – il giudizio dei contemporanei dal giudizio degli storici vicini a noi. Questi ultimi possono giudicare di Celestino V da lontano, con una certa dovizia di documenti coevi a Pietro del Morrone ma anche con la conoscenza della storia successiva a lui, con lo sguardo allargato, ad esempio, al pontificato di Bonifacio VIII, suo successore, e quindi ai papi della fine del Medioevo e ai loro successori. È quindi naturale che il giudizio degli storici restringa l’eremita del Morrone nell’angusto spazio monastico; quello che gli fu più congeniale, riservando un giudizio piuttosto negativo sul suo breve pontificato, fino alla grande rinuncia, quantunque anche in questo ambito non manchino di rilevare alcuni aspetti positivi. Nessuno storico poi ha nulla da censurare, ovviamente, sulla assoluta moralità di papa Celestino, né sulla sua estraneità ai disegni di potere o di mondano prestigio.
I contemporanei di papa Celestino, invece, lo giudicarono (né era possibile altrimenti) con lo sguardo del loro tempo, con l’animus religioso del Duecento, anzi dei decenni finali del XIII secolo, che vedevano i consueti sconvolgimenti politici, guerre, carestie, malattie e povertà, quando più e quando meno; e unito ad esse, quasi per contrasto, un crescente anelito religioso che andava all’essenzialità del vivere e alla più piena fiducia in Dio. Non sarà un caso se proprio il secolo che in pratica si chiudeva con il pontificato di Celestino V aveva visto, al suo sorgere, il grande spirito riformatore di Francesco d’Assisi
(Fonte, pag 3)

Le interpretazioni di Inferno III, 59-60 alla luce del momento storico e degli ultimi contributi della critica sono tante.

Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto, 
vidi e conobbi l’ombra di colui 
che fece per viltade il gran rifiuto. 

Cosa rimproverava Dante a Celestino V? Con le sue dimissioni aveva favorito l’elezione di Bonifacio VIII, papa che era la causa delle sventure del poeta fiorentino.

La prima interpretazione di questo personaggio anonimo con Celestino V fu opera dei figli di Dante stesso. Ci sono state interpretazioni diverse, sia legate a personaggi del tempo, sia legate a imperatori del mondo romano. L’interpretazione alternativa più autorevole riguarda Ponzio Pilato.

Scrive Luca Pieroni nella sua tesi “STORIA E INTERPRETAZIONI DI UN VERSO DANTESCO”:

Al termine della mia ricerca, quindi, sono giunto alla conclusione che sebbene il primo dannato della Commedia possa essere identificato con Celestino V, a questa condanna non si debbano assegnare particolari significati politici o religiosi in quanto sembrerebbe dettata più da necessità comunicativo-narrative che da un effettivo ragionamento su un personaggio storico che, pur nella sua eccezionalità, non trova posto nel mare magnum dell’opera dantesca. (fonte, pag. 55)

Francesco Petrarca nel De vita solitaria (1342) esprime ammirazione per la scelta di Celestino V, scorgendo in quel gesto sofferto e doloroso tutta la dignità di un uomo che rifiuta una carica per la quale, pur tenendola in altissima considerazione, non si sente adeguato. Le parole del Petrarca sono molto belle:

“Lo deridano pure coloro che lo videro: per loro il povero spregiatore delle ricchezze e la sua santa povertà apparivano vili di fronte al fulgore dell’oro e della porpora. A noi sia concesso di ammirare quest’uomo, di porlo tra gli eletti e di considerare una disgrazia il non averlo potuto conoscere personalmente”.

Papa Paolo VI si recò in visita nella Città di Fumone il 1 settembre 1966

San Celestino V, dopo pochi mesi, comprende che egli è ingannato da quelli che lo circondano, che profittano della Tua inesperienza per strappargli benefici. Ed ecco rifulgere la santità sulle manchevolezze umane: il Papa, come per dovere aveva accettato il Pontificato supremo, così, per dovere, vi rinuncia; non per viltà, come Dante scrisse – se le sue parole si riferiscono veramente a Celestino – ma per eroismo di virtù, per sentimento di dovere.  E morì qui, segregato, perché altri non potesse profittare ancora della sua semplicità ed umiltà, e la morte non fu per lui la fine, ma il principio della gloria, oltre che nel paradiso, anche sulla terra...

Giovanni Paolo II, il 30 giugno 1985, parlando alla comunità civile di Atri dei Santi della terra d’Abruzzo, fece riferimento a Celestino V e disse:

Pietro di Morrone, l’eremita della montagna, che dagli spettacoli naturali traeva spinta per elevarsi alle vette della pura contemplazione, e che, divenuto Celestino V, rimase sempre avvinto – mente e cuore – al fascino della solitudine contemplativa.

Papa Benedetto XVI ha incontrato Papa Celestino V due volte. La prima occasione, contrassegnata dalla consegna del suo Pallio papale, con il quale aveva iniziato il ministero petrino, avviene a L’Aquila, il 28 aprile 2009. Nel 2010, in occasione della visita pastorale alla città di Sulmona, nell’800° anniversario della nascita di Pietro Angelerio del Morrone, Papa Benedetto XVI, durante l’omelia ha affermato che

Così fu per san Celestino V: egli seppe agire secondo coscienza in obbedienza a Dio, e perciò senza paura e con grande coraggio, anche nei momenti difficili, come quelli legati al suo breve Pontificato, non temendo di perdere la propria dignità, ma sapendo che questa consiste nell’essere nella verità. E il garante della verità è Dio. 

La vita di Pietro del Morrone

Pietro Angelerio (o secondo alcuni Angeleri) nacque in Molise nel 1209 o nel 1210. La sua nascita è rivendicata da più comuni: Isernia, sant’Angelo Limosano (dei quali, oggi, è patrono), Sant’Angelo in Grotte (una frazione di Santa Maria del Molise) e Castrum Sancti Angeli de Ravecanina, nel Casertano. 

Si formò per un breve periodo presso il monastero benedettino di Santa Maria in Faifoli (Campobasso). Ma il suo desiderio di assoluto, di silenzio e di austerità lo portarono a una vita eremitica sul monte Palleno nel versante meridionale della Maiella. Nel 1240 si trasferì a Roma dove studiò per l’ordinazione sacerdotale. Nel 1241 ritornò sul monte Morrone, in un’altra grotta, presso Segezzano. Dopo alcuni anni abbandonò anche questo posto per rifugiarsi in un luogo ancora più inaccessibile sui monti della Maiella dove visse nella maniera più semplice possibile. Esistono tracce documentate della sua presenza a Lione, in Francia, nell’inverno 1273dove si recò a piedi mentre stava iniziando il Concilio convocato da Gregorio X. Pietro del Morrone voleva impedire che l’ordine monastico dei Celestini, da lui stesso fondato, fosse soppresso ed ottenne di essere incorporato nell’ordine benedettino. 

Il 4 aprile 1292 morì papa Niccolò IV. Nello stesso mese si riunì il Conclave, in quel momento composto da soli dodici porporati, diventati undici per la sopraggiunta morte di un cardinale. La contrapposizione tra i Colonna e gli Orsini paralizzò il Conclave per oltre due anni. La lunga “vacazio” finì con l’elezione a Pontefice di Pietro del Morrone, avvenuta a Perugia il 5 luglio 1294, un’elezione dovuta alla sua fama di santità, ma anche all’influenza di Carlo II d’Angiò. Diventato Celestino V, consacrato il 29 agosto 1294 all’Aquila, esercitò il proprio ministero al di fuori di Roma, anche perché questa situazione era, a quanto pare, ben vista dalla curia romana: rimase a L’Aquila per circa due mesi, osannato dalla città; su insistenza del re francese si stabilì successivamente a Napoli. Ormai molto anziano, sempre più conscio di essere inadeguato al ruolo perché inesperto di questioni politiche e privo di doti amministrative, il 13 dicembre 1294 rinunciò al pontificato, il sesto degli otto papi che hanno fatto questa scelta.  Probabilmente fu incoraggiato nella sua decisione dal cardinale Benedetto Caetani, il quale, eletto Papa col nome di Bonifacio VIII nel successivo conclave, dapprima si limitò a sorvegliarlo e poi, dopo un tentativo di fuga verso la Terra Santa, lo confinò nel castello di Fumone. Pietro del Morrone morì il 19 maggio 1297 in una piccola cella della fortezza. 

Le sue spoglie si trovano dal 15 febbraio 1327 nella basilica aquilana, all’interno del mausoleo realizzato ad opera di Girolamo da Vicenza. Sulla traslazione ci sono varie versioni.

Il 5 maggio 1313 Clemente V proclamò santo Pietro dal Morrone, omettendo, però, nel testo della bolla di canonizzazione il titolo di pontefice e persino il nome da lui assunto come papa, come pretendeva invece il re francese Filippo il Bello. Saliva così agli onori degli altari l’eremita, non il papa, l’asceta, non il martire. Solo Clemente IX Rospigliosi, nel 1668, restituì al santo entrambi i suoi nomi.

Il 18 aprile 1988 la salma di Celestino V fu trafugata e ritrovata due giorni dopo in una frazioni del comune di Amatrice. Non sono mai stati scoperti i mandanti o gli esecutori.

L’Arcidiocesi di L’Aquila ha effettuato nel 2013 una ricognizione canonica dei resti mortali di Celestino. La maschera in cera precedente è stata sostituita da una nuova in argento. Anche i paramenti settecenteschi del Santo sono stati sostituiti con altri di produzione moderna, e che richiamano stilisticamente le fattezze dei signa pontificalia medioevali. Questa ricognizione è stata inoltre l’occasione per porre sul corpo di san Pietro Celestino il pallio che papa Benedetto XVI stesso aveva donato al suo predecessore in occasione della sua visita a L’Aquila il 28 aprile 2009.

È patrono del comune di Isernia, che ne rivendica i natali, e compatrono dell’Aquila, di Ferentino, di Urbino e del Molise. La festa liturgica si celebra il 19 maggio.

La figura di Pietro del Morrone

Pietro praticava ascesi rigorose, ai limiti dell’umano. Vestiva un abito vile, intessuto di nodosi e duri cilici che, in estate, premendo sulla carne, la infettavano producendo piaghe verminose.
Intorno al ventre era cinto da una catena di ferro. Non indossava calzature e dormiva su tavole o sulla nuda terra. Digiunava sempre, tranne la domenica.
Non mangiava carne e non beveva vino, se non raramente, e sempre annacquato. Il suo anno era scandito da sei quaresime. Si nutriva esclusivamente di fave, rape crude, cavolo e frutti spontanei come le castagne, i fichi e le mele.
Di notte si alzava per recitare il Salterio e le ore canoniche, ma non trascurava il lavoro manuale e pratiche ascetiche continue, come le genuflessioni, che durante le quaresime potevano arrivare a mille. Il lavoro manuale era concepito quale strumento di penitenza e di lotta contro le tentazioni: Pietro attendeva alla scrittura, rilegava i libri, confezionava o riparava le vesti sue e dei suoi compagni. Era un uomo di preghiera e di ascesi, di carità e di lavoro, di povertà e di silenzio.

Se vogliamo trovare degli antecedenti, una fonte di ispirazione, dobbiamo allora ritornare alla testimonianza di Gioacchino da Fiore, alla lettura mistica ed escatologica data dall’abate calabrese alla missione del monachesimo.

Il monachesimo morronese preferiva la solitudine e la montagna rispetto al “neomonachesimo” mendicante (francescano) che rivolgevano la propria scelta alle città.

Pietro del Morrone non era del tutto sconosciuto prima della sua elezione al papato, perché dalla cella che abitava sulle montagne abruzzesi la fama delle sue virtù e della sua integerrima vita non solo si era sparsa nei luoghi vicini, dalla Maiella alla conca Peligna ed anche oltre, fra Abruzzo, Molise, Campania e Lazio, ma era giunta anche a Roma e alla corte di Carlo I, poi di Carlo II d’Angiò, che furono re di Sicilia e di Napoli.
La fama di buon padre dei suoi monaci e di saggio istitutore di comunità monastiche che il monaco Pietro si era guadagnato, raggiunse infine il conclave di Perugia, sicché dopo tante discussioni e dissidenze fra i cardinali elettori, il suo nome parve l’unico che potesse riappacificare gli animi e radunare i voti per dare alla Chiesa, dopo una sede vacante durata più di due anni, un degno pontefice.

La scelta del conclave di Perugia

La scelta di Celestino V come papa avvenne in un periodo storico di cambiamenti epocali. La successione dei pontefici della seconda metà del ‘200, a eccezione di talune personalità altamente spirituali – Gregorio X, Innocenzo V, Niccolò IV – fu appannaggio di esponenti legati alla politica e agli orientamenti espressi dai troni e dalle dominazioni.
Mentre dunque una parte di fedeli (gli Spirituali) voleva un papa “angelico” – questa la terminologia usata dai Francescani rigoristi – la maggior parte dei cardinali era composta da signori del mondo potenti e prepotenti, molto lontani dalla scelta di un esponente che venisse dalla vita contemplativa e dall’esperienza eremitica.

Inoltre le potenti famiglie romane erano divise in due blocchi, restii ad ogni forma di compromesso: gli Orsini e i Colonna e per due anni, dopo la morte di Niccolò IV, il conclave fu bloccato da questo contrasto irriducibile. Nel mese di marzo 1394 cominciò a far sentire la sua influenza, duramente contestata dal cardinale Caetani, il re francese Carlo II d’Angiò. In realtà non era una intromissione casuale.

Dopo Gregorio VII la Chiesa era diventata una società storica, un grande corpo gerarchico e sacrale governato dal papa e dai vescovi. La fine della lotta per le investiture con la vittoria della Chiesa stava entrando in crisi. Nel Duecento il papato aveva raggiunto il culmine del suo potere, ma nello scontro era venuta meno la dialettica tra i due poteri così come era stata pensata dalla ideologia gregoriana, e la visione universalistica medioevale doveva subire un netto ridimensionamento, se non una sconfitta. Il sovrano laico poteva svincolarsi dal controllo del potere ecclesiastico e trovare le proprie giustificazioni in se stesso. Con la crescita di formazioni politiche che tendevano a organizzarsi per stati nazionali si stavano ponendo le basi dell’assolutismo moderno.

Con l’avvento di Celestino V era parso a molti che stesse finalmente avverandosi il miracolo «di una irruzione di Dio nella storia», come ebbe a dire efficacemente Raoul Manselli. In altri casi aveva funzionato, ma questa volta il
miracolo non accadde. Proprio per questo la notizia dell’abdicazione fu accolta con delusione e angoscia ed ebbe conseguenze drammatiche, che forse nemmeno Pietro del Morrone era in grado di prevedere. È certo tuttavia che gli
eventi del 1294 segnarono una svolta decisiva, un punto di non ritorno, per la Chiesa e la coscienza europea al tramonto del Medioevo. Nonostante la brevità di un pontificato durato solo sei mesi, Celestino V non sarebbe stato
dimenticato, anzi sarebbe diventato un mito potente, una figura capace di coagulare le attese di un papa riformatore, un pastor angelicus chiamato a rinnovare la Chiesa e a guidarla negli ultimi tempi.

Il Duecento fu un altro grande secolo per l’eremitismo. Gli storici si sono a lungo interrogati sui motivi del grande revival eremitico in un’epoca di progresso sociale ed economico, caratterizzata dalla forte ripresa delle città, dallo sviluppo del commercio e delle imprese. Ma forse furono proprio l’incremento della ricchezza, il generale miglioramento delle condizioni di vita a fornire la spinta decisiva all’affermazione degli ideali dell’anacoresi. Alla base del rinnovato slancio della vita solitaria vi era anche una profonda nostalgia, il bisogno di ritornare agli ideali del cristianesimo primitivo, alle origini perdute. In una fase in cui la Chiesa era diventata ormai una istituzione ricca e potente, che svolgeva un ruolo politico dominante e deteneva il monopolio della cultura, il riferimento al deserto era espressione della volontà di incarnare un cristianesimo più povero, semplice, essenziale.

Del resto la situazione politica generale era difficile: nel 1291, la caduta di S. Giovanni d’Acri aveva posto nuovamente in primo piano la questione della Terrasanta; Francia e Inghilterra erano in guerra; Aragonesi e Angioini si contendevano la Sicilia. (fonte, pag. 243)

Non era la prima volta che i porporati in difficoltà procedevano alla designazione di una personalità esterna al Sacro Collegio. Urbano IV (1261-1264) e Gregorio X (1271-1276) non erano cardinali, e ciononostante erano stati buoni papi. Ma entrambi avevano svolto missioni politiche e diplomatiche di un certo rilievo e avevano pratica dei problemi della
Curia. La scelta di Pietro del Morrone, invece, era davvero senza precedenti.

Un grande studioso di Celestino V, Peter Herde [P. Herde, Celestino V (Pietro del Morrone) 1294 Il Papa Angelico, Ed. Celestiniane, L’Aquila 2004], ha scritto che la scelta di Pietro del Morrone da parte dei cardinali quale nuovo pontefice fu certamente «una decisione insensata, perché a Pietro mancavano tutti i presupposti per reggere la Chiesa con successo: la conoscenza del complicato apparato curiale, del diritto canonico, dei problemi spirituali e politici: inoltre era troppo vecchio (aveva circa 85 anni) per potersi adeguare ai nuovi compiti». Persino i pochi concistori che celebrò Celestino V furono tenuti in lingua volgare, perché egli non conosceva bene il latino, o almeno lo stile della curia.

Fu dunque Celestino un papa angelico, profetico, provvidenziale, spirituale, potenziale germe di rigenerazione del pontificato romano, oppure un uomo anziano e inesperto, facile da manovrare, ingenuo nelle sue scelte, eletto per una breve transizione in vista di futuri accordi fra i potentati cardinalizi e la politica dei regni?

Fu sicuramente eletto come papa di transizione ma non si può considerare debole e fragile. Pietro era poco preparato politicamente, non conosceva le astuzie del mondo curiale, ma era anche un vecchio testardo, animato da un grande rigore morale. Ed era anche molto lucido. Non avrebbe altrimenti trovato il terribile coraggio della rinuncia.

Il Pontificato di Celestino V

Celestino (il nome sembra fosse scelto da lui per chiara allusione alle forze celesti che avevano guidato la sua elezione) entrò a L’Aquila per la sua coronazione sopra un asino, come Cristo in Gerusalemme: tutto sembrava alludere al papa angelico, profetizzato da Gioacchino da Fiore. I due mesi trascorsi nella città abruzzese furono molto tranquilli per il nuovo papa; spesso era costretto ad affacciarsi per rispondere alle espressioni di giubilo della popolazione.

Dopo la concessione della Perdonanza Celestino V si trattenne a L’Aquila per poco tempo. Nei primi giorni di ottobre del 1294 il papa e il re lasciarono l’Aquila per recarsi a Napoli, dove arrivarono agli inizi di novembre. Nella reggia del Castelnuovo il santo vecchio si fece costruire una cella di legno, quasi a voler ricreare la sua condizione passata, e lì trascorreva molte ore in digiuni e preghiere.

Il pontificato di Celestino V è stato breve, ma molto intenso. L’attenzione degli storici si è concentrata sulle circostanze eccezionali della elezione e della rinunzia, mentre sono state trascurate alcune decisioni politiche ed ecclesiastiche di rilievo che furono prese nel semestre del suo governo.

Non esiste ancora una raccolta precisa delle bolle papali, ma le sue decisioni furono diverse: il principio che attribuisce alla libera volontà del pontefice la piena e completa responsabilità dell’iniziativa della rinuncia, la definizione di tempi, luoghi e modalità per i prossimi conclavi, il rinnovamento del Collegio cardinalizio (Celestino V fu criticato perché troppo filofrancese). Più opache sono giudicate le modalità amministrative, con l’evidente invadenza di funzionari reali francesi.

Molto discusse furono invece alcune decisioni prese da Celestino V in merito agli ordini monastici. Largheggiò nel concedere dispense e privilegi speciali alla congregazione dei monaci morronesi, che pose sotto la protezione
speciale della Sede Apostolica, fino ad essere accusato di nepotismo.

Nella «pienezza della sua semplicità», non si curava eccessivamente di beghe temporali e molti sfruttarono cinicamente la sua generosità. Le accuse di irregolarità mossegli non sono state provate, ma è certo che il pontefice largheggiò in benefici, prebende, privilegi. Intanto crescevano i malumori all’interno del Sacro Collegio, e in questo clima teso e difficile, il papa cominciò a pensare seriamente alle sue dimissioni.

In una cronaca del secolo decimo terzo, il monaco inglese Bartholomew de Cotton narra che a Napoli, il 13 dicembre 1294, papa Celestino V entrò in concistoro e pronunziò alcune parole nella sua lingua materna: «Fratelli miei, voi mi avete eletto papa, e so di aver fatto molte cose, alcune bene, e altre meno bene, che voglio revocare, perché non so distinguere quello che è stato fatto bene da ciò che non lo è stato. Ma io lascio la scelta al mio successore, affinché su questo possa decidere secondo la sua volontà». Estrasse quindi dal manto l’atto di rinunzia e lo lesse. Infine scese dalla cattedra e depose a terra la tiara, poi il manto e l’anello. Dopo essersi ritirato da solo nella sua cella e aver indossato il saio grigio della sua congregazione, Pietro rientrò in concistoro e si accovacciò a terra, sull’ultimo gradino del trono. Ai cardinali chiese, tra le lacrime, che non perdessero tempo a designare il suo successore, e che scegliessero un uomo buono, utile alla Chiesa, alla cristianità e alla Terrasanta. I porporati intanto, stupefatti ed emozionati, gridavano e piangevano. (fonte, pag 233)

Finiva così in modo drammatico il pontificato di 107 giorni effettivi (151 giorni dalla nomina) di Celestino V, 192° papa.

La nascita di un mito

Su quello che accadde negli ultimi diciotto mesi della vita di Pietro del Morrone, tra la rinunzia al pontificato e la morte, cala il silenzio di molte delle fonti coeve. Fu proprio l’alone di mistero e di imbarazzo che circondò il capitolo finale della vicenda a favorire, nel corso del Trecento, la formazione di un complesso di racconti leggendari relativi all’abdicazione, alla prigionia e alla morte di Celestino V. Secondo questo dossier di apocrifi, il santo vecchio fu
indotto alla rinunzia perché ingannato dal cardinale Caetani che, bramoso di assurgere al pontificato, inscenò la simulazione sacrilega, ma ben riuscita, di voci angeliche che lo consigliavano di ritirarsi. Non pago, Bonifacio VIII lo
imprigionò e poi lo fece uccidere.

Questo florilegio di storie ebbe larga fortuna nella produzione letteraria dei secoli XIV e XV, ma non ha alcun fondamento storico reale.

Certamente, Bonifacio non nutriva dubbi sulla buona fede dell’eremita, anzi lo considerava «buono e santo», ma come osserva il cardinale Stefaneschi, anche «debole e inesperto», e proprio per questo particolarmente esposto a pericolose strumentalizzazioni. Temendo questo lo fece rinchiudere fino alla morte nel castello di Fumone.

Aveva compreso quanto potesse diventare ingombrante e pericolosa per lui una figura specularmente opposta alla sua, un ex-papa interamente dedito alla preghiera e alla mortificazione, vissuto da eremita e già considerato santo dai fedeli. Tolse di mezzo il vecchio eremita, ma pose inconsapevolmente le basi per la costruzione di una leggenda destinata per secoli a ravvivare le profezie di riforma e le speranze di instaurazione di una Chiesa davvero spirituale: la figura del «Papa angelico», che compie il gesto inaudito di deporre la tiara.

Da visitare

La Perdonanza Celestiniana

Articolo “Perdonanza Celestiniana”

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